Stefano Zamagni ha affrontato il tema della disuguaglianza. Ne è uscito un breve saggio rivoluzionario. Disuguali, pubblicato lo scorso ottobre da Aboca Edizioni, è un libro rivoluzionario perché invita a cambiare alla base le regole e le istituzioni economiche internazionali della nostra società, se davvero vogliamo contrastare l’incredibile aumento delle disuguaglianze a cui stiamo assistendo ormai da diversi anni. Dentro questo invito alla rivoluzione ci sono inevitabilmente diverse considerazioni poco popolari, come l’idea che non saranno la cooperazione internazionale o la filantropia a salvarci dalla disuguaglianza o che anche il diritto di proprietà privata ha bisogno di una revisione, perché non può essere “assoluto o intoccabile” come aveva ricordato papa Francesco lo scorso dicembre.

Zamagni, economista esperto che da due anni è presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, non si illude che la distanza economica e sociale tra i Paesi e all’interno dei Paesi possa essere cancellata. «Le disuguaglianze sono sempre esistite. Gesù nel Vangelo ci ha avvertito: “I poveri li avrete sempre con voi” – spiega –. Il problema non è che le disuguaglianze esistono, ma che a partire dagli anni Settanta sono diventate strutturali: le disuguaglianze come le conosciamo adesso sono cioè la conseguenza diretta di strutture economiche e finanziarie che si sono sviluppate negli ultimi quarant’anni». La Chiesa aveva individuato da tempo questa situazione. Zamagni riprende un’espressione della Dottrina sociale: il concetto di “strutture di peccato” che Giovanni Paolo II aveva introdotto con la Sollicitudo Rei Socialis, enciclica del 1987. «La disuguaglianza – spiega l’economista – è una evidenza esplicita delle strutture di peccato. Il peccato non è solo dell’individuo, ma è anche inscritto nelle regole del gioco finanziario, monetario o del mercato del lavoro. Le regole portano alla disuguaglianza, per questo il problema è molto più serio che in passato, quando si poteva intervenire con la redistribuzione. Oggi non basta più, devi cambiare quelle strutture».

Sta qui il carattere rivoluzionario della proposta di Disuguali: occorre intervenire sulle strutture, non sugli esiti finali. Zamagni individua una data precisa in cui si è aperto il cantiere per costruire le attuali regole della nostra economia. È 15 novembre del 1975, quando i capi di Stato e di governo di Stati Uniti, Francia, Germania Ovest, Regno Unito, Italia e Giappone si incontrano nel castello di Rambuillet, vicino a Parigi, per il primo vertice del G6. «È lì che si avvia il progetto della globalizzazione, che è molto diversa dall’internazionalizzazione o dalla mondializzazione – spiega il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali –. Da sempre l’oggetto delle transazioni economiche tra gli Stati erano solo le merci. Con la globalizzazione tutto l’input della produzione economica diventa oggetto di scambio: i capitali, il lavoro, anche i diritti umani fondamentali. Lo stesso fenomeno migratorio, che era sempre esistito, con la globalizzazione diventa da spontaneo a strutturale, necessario per costituire un mercato del lavoro globale, con salari più bassi e libero accesso alla forza lavoro».

All’inizio del libro Zamagni cita due scrittori molto diversi – C.S. Lewis e David Foster Wallace – per le loro riflessioni sul rischio di accettare a priori la realtà delle cose, soltanto perché è l’unica che conosciamo. Invece molte delle strutture all’origine della disuguaglianza fino a qualche decennio fa semplicemente non esistevano. «Per esempio non esistevano i paradisi fiscali, non c’era questo uso intensivo dei derivati finanziari, non c’erano le banche ombra, eppure la finanza funzionava lo stesso. Funzionava anche il commercio internazionale, anche senza l’allentamento delle regole che abbiamo visto in questi 40 anni – dice l’economista –. Dovremmo cambiare l’orientamento: le regole devono prima di tutto soddisfare il criterio dell’equità e poi quello dell’efficienza, invece si è cercata l’efficienza a prescindere dall’equità».

Privilegiare l’equità sull’efficienza significa procedere con precise modifiche alle regole. Le proposte concrete, raccolte tra le migliori ricerche internazionali, sono numerose: tra queste la chiusura dei paradisi fiscali, l’introduzione dei salari minimi, lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle cose (comprese le eredità), l’obbligo di inserire i risultati sul fronte della sostenibilità nei bilanci d’impresa, la protezione dei beni comuni dalle dinamiche del mercato e della proprietà privata, la costituzione di un’organizzazione mondiale dell’ambiente con poteri sanzionatori su chi non rispetta le regole.

Nella realtà politica di oggi però nulla va in quella direzione. «Chi ha il potere costituisce una fondazione e fa filantropia, mentre le ingiustizie sociali aumentano. Due anni fa Darren Walker, presidente della Ford Foundation, ha riconosciuto che occorre passare dalla generosità alla giustizia. Fare assistenzialismo e portare pacchi dono aiuta chi li riceve ma non fa nulla per risolvere alla radice il problema della disuguaglianza. Non servono misure di redistribuzione, ma di pre-distribuzione: dobbiamo intervenire sul processo con il quale si crea la ricchezza, altrimenti è come portare acqua con un secchio bucato » nota Zamagni. Se nulla cambia, è per la forza delle lobby di chi ha potere economico. «Il potere politico delle élite, che consegue al loro controllo delle risorse, riduce gli spazi della libertà economica al fine di difendere i propri interessi e questo scoraggia sia l’innovazione sia la competizione, proteggendo le rendite di posizione» si legge in Disuguali. Davanti alle resistenze di chi non vuole perdere soldi e potere e a un cultura che mette al centro l’individuo con la sua sconfinata libertà, occorre muoversi con la tenacia dei cristiani. «Una delle grandi ragioni per cui mi piace il cristianesimo è che ti fa capire che per raggiungere un certo obiettivo la via deve essere quella della virtù, della pratica – conclude il presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali –. Non devi trovare l’assenso di tutti su quell’obiettivo, tu comincia a mettere in pratica dei processi di trasformazione delle regole del gioco, vedrai che un po’ alla volta la gente tornerà a capire che cos’è il bene comune e ad apprezzarlo. Se invece ne parli e non fai nulla la gente cade in frustrazione e non ti segue più».

[Avvenire 03.03.2021]