Fancy: i governi devono rendere costoso inquinare

Dal 2017 a oggi, gli investimenti in fondi sostenibili negli Usa sono cresciuti di 1.400 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, le emissioni di gas a effetto serra hanno battuto record su record ogni anno, tolta la parentesi della pandemia. È possibile che nel 2024, quando i fondi ‘ecoresponsabili’ avranno accumulato la cifra stratosferica di 11mila miliardi di dollari, il mondo sia più verde? Una crescente diaspora di ex operatori del settore risponde enfaticamente di no. E boccia senza pietà il mondo degli investimenti ambientali come un’operazione di marketing, una ‘mano di pittura verde’ alla finanza che fa più male che bene al pianeta.

Una delle voci-contro più autorevoli è quella di Tariq Fancy, che ha guidato gli investimenti sostenibili del colosso BlackRock, il più grande gestore d’investimenti al mondo, prima di abbandonarlo per fondare una società non profit dedicata all’istruzione a distanza. Ma c’è anche Ralph Thurm, che ha lasciato la direzione delle strategie sostenibili in Siemens prima e alla Deloitte poi, quindi ha pubblicato un rapporto esplosivo intitolato ‘La Grande illusione della sostenibilità‘. Per non parlare di Duncan Austin, ex partner del fondo ‘verde’ Generation Investment Management, fondato dall’ex vicepresidente Usa Al Gore, convinto ora che «la finanzia sostenibile ha portato alla convinzione erronea che stiamo facendo più progressi sulla sostenibilità di quanto non siamo realmente». E non solo.

Nello spiegare le loro ragioni, tutti i Bastiani contrari partono dallo stesso punto, che descrivono come ‘il grande equivoco’ dei fondi sostenibili, vale a dire la convinzione che gli investimenti verdi finanzino progetti di difesa dell’ambiente. Non è sempre così. «L’informazione che si è persa per strada è che l’obiettivo originale dei criteri di misurazione della sostenibilità ambientale era di aiutare gli investitori a ridurre il rischio finanziario legato ai cambiamenti climatici – spiega Thurm –, non combattere il cambiamento climatico. Essenzialmente, sono strumenti di gestione del rischio». Ken Pucker, ex direttore operativo dei progetti di sostenibilità di Timberland, riprende lo stesso ritornello: «L’attenzione ventennale alla rendicontazione della responsabilità sociale delle imprese e l’attuale frenesia degli investimenti verdi hanno creato l’impressione che facciano qualcosa di concreto per affrontare le sfide sociali e ambientali – dice – i mercati da soli non sono sufficienti per risolvere questi problemi». Dall’ufficio della Rumie Inititive a Toronto, Fancy illustra il principio della finanza sostenibile con il linguaggio abbordabile al quale lo hanno addestrato le capsule di apprendimento che la sua non profit produce ogni giorno. «Il meccanismo di base della finanzia Esg (che integra parametri ambientali, sociali e di governance, ndr) è il disinvestimento: non vuoi possedere le azioni di un’azienda perché la consideri o troppo rischiosa o immorale. Ma non fermi l’azienda, né la motivi a cambiare, perché ci sono moltissimi altri investitori disposti a comprare le sue azioni. Gli Esg sono comunque basati sulle regole di mercato e il capitalismo lavora per massimizzare il profitto. Finché i prezzi del petrolio sono quelli che sono, ci saranno persone che estraggono, comprano, vendono e bruciano petrolio».

Dunque i banchieri che usano i parametri Esg per valutare un fondo stanno solo cercando di proteggere il portafoglio dei loro clienti – che sono legalmente obbligati a tutelare – dai rischi del cambiamento climatico. Stanno cercando di aiutare il sistema ad adattarsi ai cambiamenti climatici, non a fermarli. Ed è in questo segreto di Pulcinella, a suo dire, la pericolosità dell’universo Esg, perché l’eccessiva enfasi sulla misurazione di una non precisata ‘sostenibilità’ ha ritardato l’azione urgente necessaria per affrontare i problemi di un pianeta in via di surriscaldamento.

Inverdire le proprie attività, però, rende. Stando alla società di ricerca indipendente Sustainable Research and Analysis, «la crescita del patrimonio gestito nei fondi sostenibili negli ultimi due anni è quasi interamente riconducibile al re-branding di fondi esistenti». Un’abile operazione di ‘greenwashing’, secondo la stessa ricerca, permette a un fondo di raddoppiare o triplicare il capitale, spesso facendo leva sulla sensibilità ambientale dei Millennials, e di aumentare le commissioni di gestione. L’investimento socialmente responsabile in realtà è nato con le migliori intenzioni. È emerso dai movimenti sociali negli anni Settanta, quando negli Usa gruppi come i quaccheri hanno aperto la strada all’idea che le aziende possono restare concentrate sui profitti e allo stesso tempo fare del bene alla società. Durante gli anni Ottanta, i movimenti sociali hanno chiamato in causa le aziende che contribuivano a sostenere gravi ingiustizie sociali, come l’apartheid in Sud Africa. Esg è l’ultima incarnazione di questa tendenza. Ma non c’è trasparenza nel modo in cui le organizzazioni di rating compilano i punteggi dei fondi più verdi. Come dice Thurm (che ora ha fondato r3.0, una piattaforma di sostenibilità senza scopo di lucro), «le attuali valutazioni ci dicono solo chi è il migliore della classe tra coloro che affermano di essere diventati meno cattivi. In questo momento, allora, l’Esg è strumentalizzato come greenwashing».

Anche gli sforzi in corso presso l’autorità di vigilanza dei mercati Usa, la Securities and exchange commission, e nell’Unione Europea, per reprimere il greenwashing e promuovere maggiore trasparenza, sembrano limitati dal punto di vista dei critici del mondo Esg. Aiuteranno a chiarire alcuni equivoci, sostengono, ma non indirizzeranno più capitali verso azioni in grado di affrontare il cambiamento climatico. Il solo modo per far veramente confluire denaro e idee verso possibili soluzioni ai problemi del pianeta è chiaro per i critici dell’Esg: politiche statali aggressive. «I governi devono rendere molto costoso inquinare o vivere in modo non sostenibile – spiega Fancy –, con una tassa sul carbonio, una tassa sul patrimonio, limiti alle emissioni dei veicoli e standard elevati di efficienza energetica. Solo in questo modo il sistema avrà incentivi a correggersi. Non lo farà mai da solo. Al contrario: ogni volta che un modello di profitto è minacciato, le aziende cercano di proteggerlo, come ha fatto per anni l’industria del tabacco». Un’analogia ricorrente è quella di pensare ai mercati come agli sport competitivi: hanno bisogno di regole e di un arbitro, perché da soli non si daranno regole che riducono la loro capacità di vincere. La pandemia ha dimostrato chiaramente questa logica. I governi hanno imposto alle aziende comportamenti difficili e esatto sanzioni, e hanno avuto risultati. Il vantaggio del coronavirus era un tempo di incubazione di due settimane. Quando si tratta di gas a effetto serra, il periodo di incubazione è di decenni e l’incentivo ad agire è minore: gli amministratori delegati oggi restano in carica in media 5 anni, i politici negli Usa restano in Congresso da 2 a 4 anni. Tutti hanno interessi a breve termine. La speranza che i governi «ricomincino a fare il loro lavoro», come dice ancora Fancy, dopo la grande deregulation degli anni Ottanta e Novanta, viene dai giovani, che proprio sulla scia delle misure adottate contro il Covid stanno spingendo i loro rispettivi Stati a intervenire con coraggio anche nel mondo dell’energia, della produzione e della finanza. Ai disillusi della finanza Esg non resta che informarli, educarli e ripetere senza sosta che, sotto gli abiti verdi che imprese e fondi d’investimento si sono cuciti su misura, il re, per ora, è nudo.

[Avvenire – L’economia civile 24.09.2021]